Quando il premio Nobel Jose Saramago pubblicò il libro Cecità era il 1995. Il contesto surreale di una epidemia fulminante e totale offrì all’autore l’occasione di compiere ciò in cui era maestro: l’analisi profonda dell’animo umano.
Oggi, a distanza di quasi venti anni, quella situazione è divenuta reale. Come allora la catastrofe si abbatte sul genere umano in maniera subitanea e dilagante e come nel romanzo l’uomo subisce una repentina perdita di riferimenti e certezze ed è travolto da un abissale senso di smarrimento. L’avversità spinge all’angolo e ci costringe a dichiarare chi siamo davvero, ci obbliga a giocare a carte scoperte. Come in Cecità si percepisce la pura cattiveria di alcuni e la profonda solidarietà di altri. Si assiste alle più disumane atrocità e si contempla la potenza di gesti solidali. Si subisce la rabbia e l’egoismo di calpestare gli altri per rimanere a galla. Si è accuditi da una avvolgente e rassicurante gentilezza. Dipende da noi, dipende da chi vogliamo e possiamo essere. Il contesto di emergenza e costrizione rende nitide le sfumature di personalità di ognuno di noi. Costretti alle essenziale contatto con le nostre esistenze ciascuno esprime in maniera più o meno consapevole chi è veramente. Il coraggioso affronta il timore talvolta persino sprezzante della paura di morire. Il pavido delega e si nasconde dietro le prime linee. L’umile riconosce l’errore. L’arrogante accusa altri di aver sbagliato. Il prepotente profitta della sciagura per umiliare i simili. L’insensibile esercita cattiveria per farli soccombere. Il nobile d’animo offre aiuto e sostegno senza conto di ritorno. Il debole si ritrova travolto e lasciato al destino. Il fragile si disgrega emotivamente. L’ansioso annega paure e preoccupazioni nella pura angoscia. L’adeguato affronta le difficoltà riscoprendosi ancora più adatto. Dinnanzi al disastro, al fallimento, alla nuda verità di essere impotenti, alcuni dei protagonisti di Cecità si sforzano attraverso i loro atti di mantenere integra la vitale possibilità di speranza. Forse faremmo bene a mantenere viva la speranza anche noi. Attraverso i nostri gesti, attraverso il nostro essere. Speranza di simili che sostengono altri simili. Speranza di una qualità di vita migliore. Speranza di rispetto dei luoghi che viviamo. Speranza di avere tutti uguali opportunità.
Speranza di gesti, parole, idee. Speranza di una felicità che non escluda nessuno. Speranza di poter cambiare e renderci migliori. Se così non fosse il maestro Saramago potrebbe avere tristemente ragione facendo parlare uno dei suoi personaggi “secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.